Lavorazione del maiale, il "Testamento del porco" ci insegna che del maiale non si butta via niente.

Conosciamo i salumi in budello naturale
2023-02-01

Le origini antiche della lavorazione del maiale e della sua conservazione

La storia ci insegna che sin dal 3.000 a.C. l’uomo ha sviluppato l’abilità di conservare le carni per mezzo dell’affumicatura e della salatura. Testimonianze di quest’abile arte attraversano poi l’Impero Romano Antico dove, dopo la salagione, le carni venivano conciate con mostarda, miele e spezie. Le origini della norcineria pare appartengano proprio a questo periodo, nello specifico durante la dinastia dei Flavi: sotto il dominio dell’Imperatore Vespasiano (9-79 d.C.) gli schiavi ottenuti dalle vittorie in Terra Santa venivano portati in Italia per impiegarli nell’allevamento dei suini e nella lavorazione delle loro carni (lavoro prevalentemente stagionale poiché già allora il maiale veniva ucciso una volta l’anno, in inverno).

Sarà poi il Medioevo a decretare il periodo più fiorente per la professione del norcino. In quest’ epoca viene perfezionata l’abile arte della trasformazione della carne del suino, portando alla nascita di molte ricette di quegli insaccati in budello naturale che ancora oggi abbiamo la fortuna di trovare sulle nostre tavole.

Con il Rinascimento, infine, si giunge addirittura all’affermazione di nuovi professionisti, come trincianti e scalchi. Non erano importanti solo le tecniche della salagione e della trasformazione, infatti, ma anche quella del taglio del salume e della carne.

A questo proposito proponiamo un saggio di Vincenzo Tanara, un nobile agronomo e magistrato di questo periodo a cui si attribuisce la paternità del trattato “L’economia del cittadino in villa”. All’interno di questo testo troviamo un’ode goliardica intitolata “Il testamento del porco” (Testamentum Porcelli). Si tratta di un inno al porco, un ringraziamento a questo animale, dove il maiale parla in prima persona e proprio come davanti ad un notaio lascia in eredità le proprie carni e le sue parti anatomiche ad una società caratterizzata da arti e mestieri, varietà di una economia rinascimentale già ben strutturata e complessa.

È proprio il caso di dire: “del porco non si butta via niente”.

Il testamento del porco di Vincenzo Tanara (1665)

L’ipotetico e generoso “testamento” che il porco redige di fronte al notaro di Suigo viene così trascritto dall’autore de “Le centodieci maniere di farne vivande”.

 

Prima lascio che il mio corpo sia da una caterva di golosi

in varie forme gustato.

Lascio a Priapo il mio grugno perché possa cavar tartufi.

Lascio a cartari e librari i denti più grandi perché

possano servire per piegare la carta.

Lascio agli Ebrei, dai quali non ho avuto offesa alcuna le mie setole

perché possano servirsene nella loro arte di calzolai.

Lascio ai pittori tutti i miei peli per farne pennelli.

Lascio ai fanciulli la mia vescica per giocare.

Lascio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano.

Lascio la mia pelle ai mugnai perché ne ricavino

vagli per conciare il grano.

Lascio metà delle mie cotiche agli scultori

perché ne facciano colla da stucco.

Lascio l’altra metà a quelli che fabbricano sapone.

Lascio il mio sego ai candelottari perché ne facciano candele

con le quali i virtuosi possano studiare nella quiete della notte,

Lascio metà della mia sogna ai carrettieri e bifolchi,

l’altra metà ai garzolari per conciare la canepa.

Lascio le mie ossa ai giocatori di dadi da giocare.

Lascio ai rustici il mio fiele per cavare le spine dai piedi

e per liberare il corpo indurito.

Lascio agli alchimisti la mia coda perché sappiano

che il guadagno che sono per fare con quell’arte è simile

a quello che faccio io tutto il giorno dimenando la coda.

Lascio agli ortolani le mie unghia per ingrassare

il terreno da piantar carote.

In tutti gli altri miei lardi, prosciutti, spalle, ventresche, barbaglie,

salami, mortadelle, salsicciotti, salsiccie ed altre mie preparazioni,

stabilisco e voglio che ne godano i migliori buongustai.

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