Pochi la conoscono al di fuori delle valli di Pordenone, ma quando l’assaggi non ne puoi più fare a meno. A vederla ricorda un arancino, all’assaggio è saporita e stuzzicante. La pitina o “pettuccia”, in dialetto, è un salume affumicato di pura impronta friulana.
La sua storia è legata a doppio filo con quella della tradizione contadina di tre valli: Tramontina, Valcellina e Colvera. Un territorio storicamente contrassegnato da povertà, emigrazione e un’economia di sussistenza dove la carne era un bene prezioso e rarissime erano le tracce di allevamento del maiale, considerato un lusso.
Le proteiche polpette, consumate durante i mesi invernali, erano composte da carni di pecore e capre ferite, cadute accidentalmente da un dirupo o macellate per l’età avanzata o da selvaggina ungulata cacciata di frodo. La necessità di conservarle più a lungo possibile spinse gli abitanti a sviluppare le tecniche di affumicatura e stagionatura degli impasti.
Le parti meno pregiate venivano sgrossate, ripulite e sminuzzate sul tagliere, la cosiddetta “pestadoria” con un pesante coltello chiamato “manarin” e ricomposte in polpettine condite con sale, spezie e finocchio selvatico, impanate nella farina di mais e asciugate al fumo del camino, il “fogolar”. Un lessico familiare che parla di tradizioni, usi e costumi che hanno dato modo al salume di entrar a far parte delle eccellenze a marchio IGP e nel 2018 diventare un Presidio Slow Food.
La ricetta della pitina cerca di riprodurre fedelmente quella di allora.
Il salume si compone di una frazione magra di carne di ovino o caprino, capriolo, daino, cervo, camoscio e una frazione grassa di pancetta o spalletta di suino. Sei sono le fasi di lavorazione che ne seguono per produrla. La prima è la mondatura, in cui le carni vengono disossate e private dei tendini per poi essere tritate finemente durante la macinazione. Ottenuto un impasto omogeneo ne segue l’impastatura dove il trito è unito alla concia che gli imprime una profondità aromatica unica. Fanno parte della miscela sale marino, pepe, aglio, vino ed erbe aromatiche montane tra cui il ginepro, il kummel, il finocchio selvatico i semi di finocchio e l’achillea muscata.
È il momento di comporre le polpette: la forma è semisferica e il peso oscilla tra i 150 e i 400 grammi. Impanate per bene con la farina di mais, passano dritte dritte alla fase dell’affumicatura. Il fumo prodotto dalla combustione di legno di faggio e carpine avvolge le polpette per ore donandogli quel sapore inconfondibile.
Otto sono i giorni scanditi dall’asciugatura che favorisce l’essiccamento e la diffusione della concia nella massa carnosa. L’ultimo passaggio è la stagionatura in locali ventilati dove l’umidità oscilla tra il 60% e il 90%.
Il risultato? Un prodotto artigianale con un’identità ben definita dalla forma semisferica e un colore che, all’esterno, vira dal giallo dorato al bruno. Al taglio rivela un rosso vivace, l’impasto è magro a grana molto fine, al naso ha un piacevole gusto speziato e il sapore è complesso e sapido con una caratteristica nota affumicata che avvolge il palato.
Un tempo cucinata nel brodo, gustata con la polenta o nelle zuppe per insaporirle, oggi la pitina si presta a creativi abbinamenti gastronomici. Abbrustolita, sminuzzata per dar sapore al risotto, si sposa divinamente con la polenta accoppiata al formaggio filante. Molti chef la usano al posto della pancetta come rivisitazione della classica carbonara o come ingrediente segreto nel ripieno dei cappellacci. La pitina si trasforma anche in gustoso antipasto: tagliata a fette spesse, rosolata nel burro, condita con l’aceto e accompagnata con crostini di pane leggermente abbrustoliti conditi con aglio e olio. La perfetta ricompensa dopo una lunga giornata di lavoro!